Nella Striscia di Gaza non si lotta solo per il cibo, ma anche per l’acqua. Il bene primario per eccellenza. Quello che separa la vita dalla morte. E come per tutto ciò che è essenziale, a Gaza, anche l’acqua è un lusso per cui lottare e anche morire. «Devo andare ai centri di distribuzione, dove l’acqua arriva con i camion, ma vengono ogni due o tre giorni, ed è sempre un pericolo - racconta Ahmed - L’acqua sanitaria invece arriva due volte a settimana e solo dai pozzi. Appena la scaricano noi corriamo a riempire le taniche o i serbatoi. Ma è poca, ed è salata, non si può bere ed è anche inquinata». E per chi non riesce ad avere quella potabile, l’alternativa è soltanto una: bere qualsiasi cosa, anche acqua contaminata ed estremamente pericolosa, rischiando infezioni gravi che diventano incurabili in una regione dove mancano gli antibiotici. Un’emergenza che vale a Gaza come anche in altri centri della Striscia. Uno in particolare, il campo profughi di Al Mawasi, dove 600mila persone sono a rischio di epidemie e sete. Anche Israele ne è consapevole, al punto che ha autorizzato gli Emirati Arabi Uniti a lavorare con l’Egitto per realizzare una conduttura. Ma il lavoro è complesso, i rischi elevati. Un impianto di desalinizzazione non basta. E i civili sono in condizioni sempre più disperate.
Il mare off limits
Per molti, la salvezza potrebbe essere il mare. Ma anche quello è diventato una trappola mortale. L’intera costa della Striscia di Gaza è stata interdetta dalle forze israeliane per qualsiasi tipo di attività. La balneazione è vietata, così come la pesca. E questo è anche un ulteriore ostacolo alla ricerca di cibo. I pescherecci sono stati in gran parte distrutti e le poche imbarcazioni rimaste non possono muoversi. «Alcuni ci provano comunque, lanciando le reti dalla riva, perché se entri rischi di essere ucciso - racconta Hadi - Ma con questa strategia si risce solo a catturare pesci molto piccoli che a volte nemmeno possono essere mangiati». «Eppure – prosegue l’uomo, sfollato con la sua famiglia a Gaza – questi pesci vengono comunque venduti nei mercati a prezzi esorbitanti».
Il pressing su Tel Aviv
La crisi umanitaria non lascia scampo. Ed è per questo che la comunità internazionale continua a spingere sul governo di Benjamin Netanyahu sulla tregua e sun nuovo approccio con i palestinesi. Ieri, il passo più importante lo ha fatto la Germania, il cui ministro degli Esteri, Johann Wadephul, arrivato in Israele per una visita che lo vedrà anche in Cisgiordania, ha detto che è «prematuro» riconoscere la Palestina come Stato ma che è un processo che va iniziato ora. In caso contrario, Berlino non ha escluso «misure unilaterali». La scelta tedesca ha scatenato l’ira dei ministri israeliani. Ma il monito tedesco è arrivato soprattutto nel giorno dell’incontro tra Netanyahu e l’inviato del presidente Usa Donald Trump, Steve Witkoff, atteso oggi a Gaza insieme all'ambasciatore americano Mike Huckabee. Il rappresentante della Casa Bianca entrerà nella Striscia e vedrà di persona l’orrore che si vive da mesi in quella che è diventata una sterminata distesa di macerie.
La tregua
Il vertice sembra avere rinsaldato l’alleanza tra il tycoon e Bibi, al punto che i media israeliani hanno parlato di una strategia unica per «il rilascio di tutti gli ostaggi, il disarmo di Hamas e la smilitarizzazione della Striscia». «Non ci saranno più accordi parziali», ha continuato una fonte di Ynet. Una linea dura confermata anche dalle parole di Trump, che sul social Truth ha scritto che «il modo più rapido per porre fine alla crisi umanitaria a Gaza è che Hamas si arrenda e liberi gli ostaggi». Ma la comunità internazionale spera ancora che si possa raggiungere un’intesa che freni la guerra a Gaza (dove si sono contate altre 100 vittime in 24 ore) e la deriva più radicale del governo israeliano. Ieri il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha telefonato al premier dell’Autorità nazionale palestinese, Mohammad Mustafa. per parlare degli aiuti promossi dall’Italia. E per l’Anp sono giorni di estrema tensione. Gli Stati Uniti hanno sanzionato alcuni funzionari di Ramallah accusati di «minare le prospettive di pace». E mentre aumenta la violenza dei coloni, preoccupano le mire sempre più pubbliche del governo dello Stato ebraico sulla West Bank. Il ministro della Difesa Israel Katz e il titolare della Giustizia, Yariv Levin, hanno parlato di «un’opportunità da non perdere» per «attuare la sovranità israeliana» in Cisgiordania. Tema su cui è tornato anche il ministro degli Esteri, Gideon Sa’ar, che incontrando il suo omologo tedesco a Gerusalemme, ha detto che «gli ebrei hanno il diritto di vivere nel cuore della loro patria storica, compresi Giudea e Samaria», cioè il nome biblico con cui viene chiamata la West Bank.